Il vino giapponese sta diventando un’importante realtà.
Seguiamo la sua storia dagli inizi ad oggi (con un’incursione finale a sorpresa nel mondo dei manga).
(Articolo a cura di Susanna Ribeca, scrittrice)
La storia del vino in Giappone (nihon wain) è recente ed avvincente.
La sua produzione iniziò alla fine del XIX secolo (epoca Meiji), ma fu un mezzo disastro.
Il gusto acidulo ed il colore rosso disorientarono i palati nipponici, abituati al sapore del sakè, per cui nei decenni successivi nacque il “vino fortificato” con l’aggiunta di acquavite, aromi, zucchero e spezie. Il più rappresentativo di questi vini è l’Akadama port wine, ancora in commercio con l’etichetta Akadama sweet wine.
Negli anni Sessanta, complice la diffusione della cucina occidentale, i giapponesi cominciarono ad avvicinarsi al mondo vinicolo ed il consumo di vini normali superò quello dei vini zuccherati.
Si trattava, però, di un wain fabbricato con i residui della produzione dell’uva da tavola, che non è propriamente indicata per ottenere una bevanda di qualità.
Ma c’era di peggio: molti produttori nipponici importavano vini stranieri a buon mercato, li mescolavano e li destinavano alla vendita interna; oppure compravano, sempre dall’estero, succo d’uva concentrato, a cui aggiungevano acqua e zucchero per farlo fermentare. Tanto è vero che le fabbriche erano dislocate vicino al mare, per ricevere più agevolmente la materia prima. Questi vini sono conosciuti come kokusan wain, “vino di produzione nazionale”, perché, anche se il succo era importato, parte della lavorazione avveniva in terra nipponica.
Negli anni Settanta, conobbero un grande successo i vini tedeschi: i clienti di molti esclusivi ristoranti francesi in Giappone erano medici che avevano studiato in Germania e, tornati in Patria, preferivano il vino del Reno.
Anche il Mateus Rosé portoghese ebbe successo.
Negli anni Novanta si diffusero dei vini spagnoli importati ad ottimo prezzo.
Si può dunque affermare che il nihon wain si è imposto solo da 20/30 anni.
Piano piano, infatti, i giapponesi sono diventati consapevoli della necessità di piantare delle viti da vino per una produzione di qualità. I nuovi vignaioli, spinti dal sogno di ottenere una bevanda all’altezza, si sono battuti a lungo affinché la denominazione nihon wain (in vigore dal 2015) si applicasse solo a vini nazionali derivati da uve coltivate in Giappone.
Il pregiudizio secondo cui il clima dell’arcipelago non era adatto alla coltivazione delle vigne da vino è durato molto tempo.
È vero che piove molto e che l’umidità provoca malattie e proliferazione di insetti nocivi, ma il Giappone possiede anche una grande varietà climatica e per i vignaioli si offrono più soluzioni.
Oggigiorno, i vini sono prodotti in regioni diverse fra di loro.
Più della metà della produzione si concentra intorno alle regioni di Yamanashi e Nagano, in cui tradizionalmente si è sempre coltivata l’uva. L’isola di Hokkaido, a Nord, ha il vantaggio di offrire terreni molto vasti.
Anche Okayama e Kyushu ospitano dei vigneti.
Il signor Tamamura Toyoo, vera autorità nel campo dell’enologia giapponese, autore di numerose pubblicazioni specialistiche sull’argomento, che hanno suscitato interesse in diverse generazioni di viticoltori, e viticoltore lui stesso, afferma: «Dappertutto, nel mondo, si può produrre del vino. Semplicemente, in certe regioni è necessario occuparsi maggiormente dell’uva e prendersene più cura, come in Giappone».
La legislazione è venuta loro incontro.
Prima del 2002, per avere la licenza di produttore di alcool era necessario rispettare una normativa rigorosa e, per i fabbricanti di vino, bisognava ottenere almeno 6.000 litri (8.000 bottiglie) nell’annata successiva al conferimento della licenza.
Dal 2002, il governo ha instaurato un sistema di “zone d’eccezione” ed un alleggerimento delle regole per aiutare il settore, fra cui la possibilità di richiedere la licenza anche a fronte di una produzione di 2.000 litri (2.667 bottiglie).
Tutto ciò ha stimolato la nascita di piccole realtà artigianali e di nicchia.
I nuovi viticoltori hanno spesso studiato enologia in Francia o negli Stati Uniti e sono mossi da una profonda passione.
L’età media è scesa, molte coppie giovani con figli preferiscono allontanarsi dalla città e realizzare il sogno di avere una vigna e la sorpresa è che il 30% dei produttori è costituita da donne.
L’interesse internazionale si è acceso quando un vino di Koshu (che deriva da un vitigno endemico) ha conquistato nel 2013 una medaglia d’oro al Decanter Asia wine award.
Stiamo parlando di una realtà interessante ed emergente, ma certamente le cifre delle esportazioni di vino giapponese sono assai basse se paragonate ai giganti del settore (Francia, Italia e Spagna): nel 2016, per esempio, sono stati esportati 56 chilolitri, mentre l’Italia ne ha esportati 2,10 milioni.
Al contrario, per quanto riguarda le importazioni in Giappone, è la Francia a farla da padrone, seguita da Cile ed Italia.
Anche il mercato interno sta crescendo: fino al 2003, il nihon wain era considerato ancora una novità e neanche a Tokyo era facile trovarlo; oggi, sia negozi che bar e ristoranti propongono una varia scelta di produzione locale.
Nel quartiere di Nihonbashi a Tokyo, per esempio, un ristorante propone solo 300 varietà di vini diversi della zona di Yamanashi.
I vini giapponesi sono freschi e leggeri, come piacciono alla popolazione locale.
Il vino bianco Koshu, per esempio, si sposa bene con la cucina tradizionale, tempura, sushi, pesce bianco, salmone e capesante, ma non con il tonno.
Il vino rosso Muskat Bailey A, anch’esso noto a livello internazionale, derivante da un’uva di Niigata, ha un sapore di fragola ed è adatto a piatti di pesce, maiale e pollo, cucinati alla teriyaki.
Il Cabernet annata 2009 Beau Paysage, della zona di Yamanashi, dice Iwakura Hisae, un noto sommelier e proprietario di ristorante a Tokyo, ha un aroma che ricorda i templi asiatici; il Koko 10 R Pinot Rosé 2019 è un vino elegante, seducente, dal profumo inebriante. E così via.
La crescente passione nipponica per il vino non ha tardato ad ispirare gli autori di manga.
“The drop of God (Kami no Shizuku)”, ideato da Agi Tadashi ed illustrato da Okimoto Shu, parla di Shizuku, figlio di un celebre enologo che, alla morte del padre, per riceverne l’eredità, costituita da una vasta e preziosa collezione di bottiglie, deve dimostrarsi capace di distinguere e descrivere i dodici vini preferiti dal genitore.
L’enorme successo del manga è dovuto alla presentazione molto originale dei vini, con descrizioni “stravaganti”.
La più celebre paragona il profumo del vino Mont Perat ad un concerto rock, “con sfumature di farfalla danzante su un laghetto ed un retrogusto divino”.
La serie manga “Wain Garuzu” (Wine Girls) comprende storie di ragazze ambientate nel mondo vinicolo.
Nella prima, scritta da Sanada Ikki, l’idea principale è stata quella di antropomorfizzare le uve da vino.
Il Cabernet Sauvignon, ad esempio, è una giovane vivace e curiosa, mentre sua sorella maggiore Merlot è più matura ed ha i capelli lunghi: il loro rapporto è stretto, non per niente queste due varietà di viti sono alla base dei grandi Bordeaux.
Lo sceneggiatore Jo Akira, aiutato da un noto enologo, ha creato tre manga sul mondo vinicolo.
Nel primo, “Sommelier”, un grandissimo sommelier, appunto, rinuncia ad una vita professionale promettente per viaggiare, alla ricerca di un misterioso vino assaggiato anni prima.
L’accoppiata manga-bottiglia ha funzionato anche in senso opposto: una collezione di vini della regione di Katsunuma, prefettura di Yamanashi, le cui etichette erano illustrate con 45 personaggi dei manga, tratti da serie popolarissime, è andata letteralmente a ruba.
E allora, alla salute del nostro caro Giappone!
(Articolo a cura di Susanna Ribeca, scrittrice)
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